1. Stress & Lavoro

 2. Mobbing & Burn-out

 3. Resilienza



1. Stress e Lavoro.

E’ questa l’epoca dello smarrimento. La realtà della nostra vita nel lavoro e nelle organizzazioni ci propone oggi di affrontare un cambiamento che non ha eguali nella storia dell’umanità (Zapelli). Un cambiamento che si identifica in questi ultimi decenni negli enormi progressi nei trasporti e ancor di più nelle comunicazioni, che con l’avvento del Web hanno stravolto il nostro modo di vivere quotidiano, riducendo e in alcuni casi annullando spazio e tempo. Tutto ciò che oggi condensiamo nell’unico e generico termine di “globalizzazione” deriva in gran parte da questa rivoluzione tecnologica, che oltre ad offrirci indubbi grandi vantaggi porta con sé anche un grosso fardello di incertezza, che l’essere umano per sua natura tende da sempre a rifuggire;

un’incertezza che colpisce in particolare il mondo del lavoro e le sue organizzazioni, impegnate in un continuo reinventarsi per sostenere una concorrenza alla quale non sono abituate e per la quale non sono strutturate, coinvolgendo per forza di cose le stesse persone che vi lavorano, le quali fatalmente si trovano loro malgrado e con una certa frequenza a dover rimettere in discussione i loro riferimenti, i loro valori, le loro sicurezze. Non esiste più un futuro su cui investire il proprio benessere psicologico, sociale e professionale; esiste solo un presente che non lascia spazio a investimenti emotivi su ciò che sarà. Viene così impedita all’essere umano la fondamentale necessità di poter controllare la propria vita, di esserne il principale artefice, di sentirsene l’ autore; gli viene preclusa la possibilità di immaginare, progettare e prefigurarsi il domani, che invece appare opaco, incerto, ignoto…

La comunicazione globalizzata e immediata, che annulla spazio e tempo espandendo i legami all’infinito, spinge le organizzazioni a sempre più rapide trasformazioni e quindi a una maggior instabilità, le espone ad affollamenti decisionali e a dannose interferenze,le costringe a rinunciare alla ormai inutile memoria del passato, alla loro stessa storia.

Questa nuova e iperveloce struttura sociale post-moderna non consente alle persone di mantenere il passo, non dà loro il tempo di adeguarsi e adattarsi alle sempre nuove richieste in arrivo, lasciandole in uno stato di costante affanno e di ansia per il timore di non riuscire a tenere il passo. E’ una società che il filosofo e sociologo polacco Z. Bauman chiama “società liquida”, proprio perché si modifica prima che le persone riescano a consolidare i loro modi di agire in abitudini e procedure, rendendo la vita stessa “liquida”, priva di forma e di obiettivi a lungo termine. E’ il preludio al tramonto della società occidentale e della sua egemonia, che con il suo liberismo assoluto, la sua competitività esasperata e con la progressiva riduzione delle strutture sociali ha portato l’essere umano all’alienazione e a perdere la propria individualità, in nome di una esasperata e vuota ricerca di una falsa felicità priva di morale e di valori umani.

Questo “nuovo modo di produrre” all’insegna dell’incertezza e della mobilità naturalmente condiziona e modifica fortemente anche il modo di lavorare e di intendere il lavoro dell’individuo, cambiando il suo senso di fedeltà e di appartenenza all’azienda. E’ maggiore il nomadismo, sono maggiori incostanza e discontinuità di responsabilità, sono maggiori le competenze e la versatilità richieste al singolo, deve essere maggiore la sua disponibilità a compromessi e la sua capacità di adattamento. Non ultima, è cresciuta di conseguenza la volatilità dei legami relazionali con i colleghi, divenuti via via sempre più effimeri, virtuali o di breve durata. Sicurezza, tranquillità e senso di appartenenza sono obiettivi ritenuti prioritari un tempo ormai molto lontano e divenuti oggi pura utopia.

Di fronte a un panorama di questo tipo è più che lecito pensare, e purtroppo anche facilmente verificare, come ciò sia causa di fenomeni sempre più frequenti di malessere e disagio psicofisico. Infatti “Appartenere a un’organizzazione non è solo funzionale alla necessità di uno stipendio, ma consente di soddisfare il bisogno fondamentale di controllo delle proprie ansie” (E. Jaques 1996) , che si realizza nella creazione della propria identità personale sulla base dei legami che si instaurano con le altre persone attraverso la vita aziendale. Diviene dunque necessario ristabilire nella vita organizzativa uno stato minimo di benessere in chi vi partecipa. E’ questo un aspetto tanto importante per la produttività e il successo aziendale quanto trascurato da chi ne ha il controllo e la gestione, troppo spesso attento solo ai risultati finali ma estremamente miope alle condizioni individuali e di gruppo che si celano dietro l’esecuzione di procedure ben definite. Eppure oggi più che mai, date le richieste sempre maggiori che vengono fatte a tutte le classi di lavoratori in termini di energie personali, di coinvolgimento e di intensa partecipazione, è necessaria la ricerca una condizione di benessere soggettivo che spinga le persone a impegnarsi nel proprio lavoro con ritrovata passione e dedizione.

Date queste premesse, acquista grande importanza il concetto di salute organizzativa, definibile sulla base di una serie di indicatori “standard”, risultato di numerosi studi effettuati negli anni presso lavoratori pubblici e privati di ogni livello e mansione:

  1. Pulizia e sicurezza dell’ambiente lavorativo;
  2. Obiettivi chiari e coerenti tra procedure ufficiali e prassi operative (comunicazione chiara e univoca);
  3. Valorizzazione delle competenze e dei contributi dei lavoratori (tutti) e stimolo alla loro crescita (da soggetti meramente esecutivi a soggetti attivi e creativi);
  4. Ascolto delle istanze dei dipendenti (da “dipendenti sottomessi” a “interlocutori”);
  5. Condivisione delle informazioni (relazioni circolari basate sull’attiva partecipazione dei dipendenti alla vita aziendale);
  6. Attenzione e prevenzione dei rischi professionali (concetto di sicurezza sul posto di lavoro);
  7. Stimolazione e incentivazione di relazioni franche e collaborative;
  8. Scorrevolezza operativa e rapidità decisionale (adozione di flessibilità di ragionamento a spese di rigidità codificate e fissità funzionali);
  9. Equità di trattamento a livello retributivo, di assegnazione, di responsabilità, di percorsi di carriera del personale (criteri chiari, valorizzazione dei meriti);
  10. Stimolazione nei dipendenti di senso di utilità, contribuendo a dare senso alla giornata lavorativa e al sentimento di aver contribuito all’obiettivo comune;
  11. Apertura all’ambiente esterno e all’innovazione tecnologica e culturale;
  12. Capacità di controllare e modulare i fattori di stress, impedendo (o limitando) i carichi eccessivi di fatica fisica e psichica;
  13. Descrizione chiara del compito, del contenuto del lavoro da svolgere, comunicandolo senza ambiguità e dando ascolto a chi quel lavoro deve svolgere;
  14. Gestione della conflittualità interna: ricorso al problem-solving e alla negoziazione piuttosto che all’autorità per la soluzione dei conflitti.

Attraverso questi fattori le persone creano il proprio stato di benessere, che diventa quello aziendale. La carenza parziale o totale di uno di essi dà luogo a condizioni di disagio, la cui consistenza è determinata dalla misura del deficit vissuto.

Come è noto la percezione dello stress e le cause che ne sono all’origine hanno una forte connotazione soggettiva, vi sono però delle condizioni oggettive “predisponenti”, che le organizzazioni devono impegnarsi a eliminare o quantomeno a ridurre, così da raggiungere ciò che viene definito il benessere organizzativo, equivalente a quello delle persone che nell’organizzazione vi lavorano.

Considerando i fattori che conducono al benessere soggettivo di cui si è parlato in precedenza e integrandoli in ambito aziendale, diviene dunque fondamentale creare all’interno di esse una cultura organizzativa ricca dei valori che si sono andati perdendo in questi ultimi decenni e che coinvolga i lavoratori di ogni livello. Questi alcuni degli aggettivi che la identificano: equità, appartenenza, spirito di squadra, rispetto, credibilità, motivazione.

In Italia purtroppo si soffrono e si subiscono ancora condizioni culturali di lontana memoria, per cui spesso le grandi organizzazioni aziendali tendono ancora ad essere controllate da poteri che tradizionalmente (e culturalmente) adottano logiche di gestione che non considerano una priorità il benessere aziendale.

Ma se l'Italia da questo punto di vista rimane nel contesto europeo un fanalino di coda, in molti altri Paesi più lungimiranti si sta da qualche tempo tentando di porre rimedio a questa devastante deriva. Partendo dal presupposto inconfutabile che il benessere organizzativo (e quindi la sua produttività)dipende da quello di chi vi lavora, molte aziende stanno ponendo notevole attenzione a questo aspetto, monitorando costantemente il clima organizzativo e promuovendo azioni finalizzate al miglioramento del benessere fisico, psichico e sociale dei propri dipendenti.

I segnali individuali, di gruppo e organizzativi, sia positivi che negativi, da tenere sotto controllo poichè danno la misura del benessere organizzativo possono essere, ad esempio: tra i primi (positivi) la soddisfazione, l’impegno, il desiderio di recarsi al lavoro, le buone relazioni interpersonali, il senso di appartenenza; tra i secondi (negativi) gli atteggiamenti ostili e conflittuali nei confronti dell’organizzazione, il disagio nel recarsi al lavoro, il senso di inutilità, il disinteresse, il pressante desiderio di cambiare lavoro, l’assenteismo.


2. Mobbing e Burn-out

Il mobbing è un termine di derivazione venatoria inglese (to mob) che significa in sostanza “accerchiare la preda per avere la meglio su di lei”; oggi è utilizzato anche per indicare l’aggressione collettiva nei confronti di qualcuno: allearsi allo scopo di eliminare. Nello specifico degli ambienti di lavoro il mobbing identifica tutta una serie di violenzepsicologiche sistematichee intenzionali ai danni di un lavoratore, con lo scopo di espellerlo dall’organizzazione o di creargli altri dannia livello sociale. Come nel caso dello stress, anche qui le definizioni sono innumerevoli; quella riportata dal C.C.N.L. Ministeri 2002-2005 del 18 febbraio 2003 recita: “… il mobbing è una forma di violenza morale e psichica in occasione di lavoro – adottato dal datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti di un lavoratore. Esso è caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti e comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo, in modo sistematico e abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro idonee a compromettere la salute, la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o, addirittura, tale da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento…”

Dispute con superiori o con colleghi che quando esasperate possono andareben oltre il normale conflitto di lavoro e spostarsi dal piano oggettivo a quello soggettivo personale, dando origine a fenomeni di mobbing che si concretizzano con lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione di compiti o l’assegnazione di compiti dequalificanti, la marginalizzazione, la diffusione di voci false e diffamatorie, i trasferimenti ingiustificati, le forme di controllo esasperato, l’impedimento all’accesso di notizie… Le dinamiche che si sviluppano nel mobbing sono complesse e non sono oggetto di questo articolo, è utile sottolineare però l’importanza e l’attualità del fenomeno, fortemente connesso ai tempi in cui viviamo tanto che lo stesso Piano Sanitario Nazionale (PSN) 2003-2005 lo inserisce nel gruppo delle patologie da rischi emergenti legate a fattori psico-sociali insieme alla sindrome del burn-out.

La sindrome del burn-out è appunto l’altro “grande male” segno dei tempi in cui viviamo. Il termine è traducibile dall’inglese come “bruciare fino in fondo, esaurirsi, estinguersi…” E’ tipico delle professioni di aiuto (medici, infermieri, psicologi, poliziotti, sacerdoti, insegnanti) in cui il carico emotivo intrinseco all’attività professionale è molto elevato. Può essere definito come una mancata capacità di gestione dello stress lavorativo, una mancanza di adattamento per un sovraccarico di stimoli stressanti divenuti insostenibili, l’incapacità di porre in atto strategie di coping efficaci. E’ un processo in cui, in risposta allo stress, l’individuo tende a disimpegnarsi dal proprio lavoro. Si manifesta con una progressiva perdita di motivazione, con un senso di svuotamento interiore, di depersonalizzazione, di esaurimento emotivo, di affaticamento fisico e di frustrazione. Ne vengono investite anche la sfera sociale e quella familiare; sono possibili inconsapevoli atteggiamenti disfunzionali come l’abuso di alcolici e di sigarette.

La sindrome del burn-out riveste particolare rilevanza sociale proprio a causa delle professionalità colpite, che finisce col coinvolgere indirettamente anche i soggetti più deboli che ad esse si affidano: un medico stressato è più facile che commetta errori, è meno attento alle esigenze del paziente, emotivamente distante, incapace di ascoltare e comunicare adeguatamente; allo stesso modo un insegnante mancherà di empatia, sarà più intollerante e insensibile ai disagi e alle richieste di aiuto degli studenti; così anche per quanto di loro competenza gli infermieri, i sacerdoti…


3. Resilienza

"Le avversità possono essere delle formidabili occasioni" (Thomas Mann).

In conclusione è utile citare un concetto molto importante, che consente all’essere umano di adattarsi e di reagire in modo appropriato ad eventi stressanti anche molto intensi e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà: la resilienza.

Il termine è preso in prestito dalla metallurgia, dove indica, in sintesi, la capacità di un metallo di resistere alle forze fisiche che vi vengono applicate. Similmente, in psicologia viene indicata come resiliente una persona in grado di resistere alle difficoltà e alle pressioni esterne. Non solocapacità di resistere, ma anche di “ricostruire” la propria dimensione, il proprio percorso di vita, trovando una nuova chiave di lettura di sé, degli altri e del mondo, scoprendo una nuova forza per superare le avversità. E’ un processo individuale che dipende dalla propria personalità e dalle esperienze passate. Un alto livello di resilienza consente alle persone che lo posseggono di fronteggiare con efficacia le contrarietà della vita e gli eventi stressanti da cui vengono colpite e dalle quali sembra addirittura che vengano rafforzate.

Non è innata (non solo almeno), ma può essere appresa e implementata sviluppando l’autostima, l’autoefficacia, l’abilità di tollerare le frustrazioni della vita cogliendone gli aspetti positivi, la capacità di risolvere i problemi e di produrre cambiamenti, la speranza, la tenacia, il senso dell’umorismo: la resilienza non è dunque una caratteristica che è presente o assente in un individuo; essa presuppone invece comportamenti, pensieri ed azioni che possono essere appresi da chiunque in qualunque circostanza.

Sue caratteristiche fondamentali sono quindi la capacità introspettiva, l’ottimismo e il buonumore, lo spirito di iniziativa, la creatività, la capacità di analisi dei problemi senza lasciarsi coinvolgere troppo emotivamente, la visione delle difficoltà come sfide.